Sanità
Cinque anni fa, in Ticino, il primo caso di Covid in Svizzera
Redazione
6 ore fa
Con il medico cantonale Giorgio Merlani e il direttore sanitario della Clinica Moncucco, Christian Garzoni, ritorniamo a quel momento di febbraio in cui il coronavirus ha fatto la sua comparsa nel nostro cantone. Merlani: "Lavoravamo da qualche settimana, eravamo più o meno pronti". Garzoni: " Ci siamo preparati come meglio potevamo".

Era il 25 febbraio del 2020 quando in Ticino veniva registrato il primo caso di Covid-19 in Svizzera. Da quel giorno, il mondo ha vissuto una crisi senza precedenti che ha messo alla prova la scienza, la politica e la società intera. A cinque anni di distanza, il medico cantonale Giorgio Merlani e il direttore sanitario della Clinica Moncucco Christian Garzoni ripercorrono quei momenti cruciali che hanno segnato il nostro territorio. "È la prima volta che parliamo di quello che è successo nel 2020. Tre o quattro anni fa nessuno ha fatto uno speciale sul tema, forse perché eravamo ancora troppo immersi nella questione", fa notare Merlani ai microfoni di Ticinonews. Allo scoppio della pandemia in Europa, con i primi casi in Italia, le autorità si stavano preparando, ricorda il medico cantonale. "Noi stavamo lavorando da qualche settimana, eravamo più o meno pronti. Sapevamo che era questione di giorni".

La prima conferenza stampa in Ticino

Anche Garzoni ripercorre il momento in cui è stata organizzata la prima conferenza stampa in Ticino. "Mi trovavo in vacanza a Splügen, a slittare. Ho ricevuto una telefonata del medico cantonale che mi comunicava che probabilmente avevamo il primo paziente ammalato alla Clinica Moncucco. Erano le 16, ho guardato mia moglie e i bambini e ho detto: ‘le vacanze sono finite’. Mi sono poi ritrovato, al volo, alla conferenza stampa a Bellinzona". Erano giorni difficili, aggiunge Garzoni: "Il paziente per fortuna non stava così male, ma l'emergenza era già scoppiata nel nord Italia e sapevamo che sarebbe arrivata un'ondata grave. Ci siamo preparati come meglio potevamo a quello che poi è arrivato alcune settimane dopo".

Come una medicina d’emergenza di guerra

Come sappiamo l’ondata non lasciò indenne il nostro cantone. Presto i casi si diffusero a macchia d’olio e le chiusure portarono progressivamente al primo lockdown, con la conseguente pressione sulle strutture ospedaliere e il personale sanitario. “Gli schemi di lavoro normali erano stati aboliti. L'obiettivo era di salvare più vite possibile”, afferma Garzoni. “Spesso la medicina di oggi non fa solo il necessario per permettere di sopravvivere, ma aiuta la persona in maniera globale. Ebbene, il periodo della prima ondata è stato portato avanti soprattutto con il motto ‘cerchiamo di far sopravvivere il maggior numero di persone’". L'organizzazione dell'ospedale è stata modificata. “Tutti i piani erano organizzati alla stessa maniera e un po’ alla volta venivano riempiti i reparti, che sono stati poi svuotati alla fine dell'emergenza. Era come una medicina d'emergenza di guerra”.

Momenti difficili

Al di là delle cariche istituzionali, sotto il camice da medico e lontano dai riflettori, anche il lato umano è stato messo a dura prova. E non sono mancati momenti di scoraggiamento. “Da un lato dovevamo essere estremamente presenti, attivi e molto solidi. Dall'altro però, umanamente, c'erano anche dei dubbi e delle paure”, sottolinea Merlani. “Da quel punto di vista, non è sempre stato facile”. "Mi ricordo, anche con tristezza, di alcune persone relativamente in buona salute che hanno preso il Covid, hanno lottato e non ce l'hanno fatta”, spiega Garzoni. “C'è anche un po' di rabbia, perché negli anni successivi ci sono stati grandi discussioni sulle cause della morte. Io ne ho visti morire tanti a causa del coronavirus: se non ci fosse stato il Covid, probabilmente sarebbero ancora vivi”.

Cosa ci ha lasciato il Covid

Cinque anni dopo il primo caso di coronavirus in Ticino, l’eredità lasciata dalla pandemia è trasversale. “È rimasta una maggiore attenzione ad alcuni tipi di malattie. Ogni tanto si vede qualcuno con il raffreddore che indossa la mascherina sul treno. Ci sono persone che magari evitano di andare al lavoro quando non stanno bene per non infettare i colleghi. Questa consapevolezza di poter essere veicoli di infezioni che si trasmettono agli altri e di dover essere quindi più attenti nel rispetto della collettività, ecco qui ho la sensazione che qualcosa sia cambiato”, conclude Merlani.

 

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