
È una realtà a cui forse non si pensa spesso: la tossicodipendenza non è una piaga soltanto per il mondo “fuori”, lo è anche all’interno delle carceri ticinesi. Il direttore Stefano Laffranchini è stato chiaro: quasi un terzo di chi varca la soglia del carcere soffre di una forma di dipendenza. E così, dietro le porte chiuse, si combatte per tenere le droghe lontano da chi sta espiando la propria pena. "Faremo di tutto per mantenere le strutture carcerarie un luogo pulito dalle droghe", commenta Laffranchini in un'intervista a Ticinonews, a margine del convegno "Giustizia, carcere e addiction", tenutosi ieri a Lugano. L'obiettivo, secondo il direttore delle carceri, è evitare "di ricreare la legge del più forte, che le persone conoscevano prima di essere incarcerate. Se vogliamo risocializzare, dobbiamo trasmettere le nozioni di uno Stato di diritto. Se permettessimo il commercio di stupefacenti in carcere, si ricreerebbero le dinamiche di prevaricazione tipiche del mondo degli stupefacenti".
Uno stop necessario
Molte persone, una volta uscite dalle carceri, passano per Villa Argentina, struttura specializzata nella lotta alle dipendenze, dove continuano la propria battaglia. Il direttore Mirko Steiner spiega che molte di queste persone ritengano quasi provvidenziale il fermo di polizia e l'incarcerazione per il loro percorso contro la dipendenza di cui soffrono. "È un fermo forzato al consumo di sostanze, che arriva da fuori: la persona, da sola, non è infatti capace di porsi dei limiti perché è molto dipendente dal punto di vista psichico e a volte anche fisico".
Una terapia "che funziona"
Non bisogna dimenticare un fatto: la correlazione tra dipendenze e criminalità è stretta. Alcune persone delinquono proprio perché fanno uso di stupefacenti. È indubbio che droghe come cocaina e crack favoriscono la violenza, ma uscirne sarebbe possibile. "I carcerati con dipendenza da stupefacenti che venivano a Villa Argentina per lo sconto della pena riuscivano nella loro terapia anche meglio degli altri pazienti", osserva Steiner. "All'inizio bisognava sì motivarli, ma in seguito, durante la terapia, riuscivano bene".