Innanzitutto “chill*”, l’intenzione non è quella di “triggerarvi*” o scrivere qualcosa di “cringe*” per alcuni di voi. Anzi, passeremo certamente per “boomer*”, ma non intendiamo “ghostare*” nessuno. Insomma, “no cap*”, l’idea non è quella di scrivere un articolo “swag*”, ma di spiegare e capire come parlano i giovani della generazione Z, la “Gen Z”, o almeno una parte di loro. Non tutti infatti parlano in questo modo, ma basta fare un giro per le strade del Cantone o tra i contenuti postati sui vari social, per imbattersi in qualcuno che comunica utilizzando termini che ai più possono suonare piuttosto strani. Si tratta di parole che spesso derivano dall’inglese e sono arrivate anche alle nostre latitudini tramite il web, i social e i videogiochi. Termini che piano piano hanno letteralmente coinvolto i giovani, come successo per ogni generazione con altre parole, tanto da far parte del vocabolario quotidiano delle giovani generazioni.
“Non dobbiamo stupirci”
La lingua italiana, insomma, è in continua trasformazione, ma sono molte le persone che criticano chi usa gli anglicismi. Ma il futuro del nostro idioma andrà sempre più in questa direzione? “Probabilmente sì, a meno che non cambino in breve tempo gli equilibri economici e culturali mondiali”, ci spiega Laura Baranzini, collaboratrice dell’Osservatorio linguistico della lingua italiana e docente della Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana (Usi). Secondo Baranzini, infatti, “non deve stupirci che le innovazioni linguistiche provengano massicciamente dalla lingua più influente culturalmente, e dalla lingua dominante nell’universo di internet, che è attualmente una delle fonti più ricche di nuovi modelli linguistici”.
“Una volta constatato il fenomeno”, continua l’esperta, “è
doveroso aggiungere qualche precisazione. Innanzitutto, occorre ricordare che
la maggior parte degli anglicismi entra nell’italiano con un significato
specifico, più tecnico o settoriale dell’eventuale corrispettivo italiano,
quindi non si vengono a creare ‘doppioni lessicali’ dove vince la forma
inglese, ma coppie di termini in cui la forma italiana ha un significato più
generico e quella inglese un significato più preciso, limitato a un certo ambito
specifico. Il risultato è che l’italiano si arricchisce di una forma e di nuove
sfumature di significato: laddove l’inglese ha solo mail, noi abbiamo mail e
posta, e al posto di to chat sceglieremo, a seconda del contesto, chiacchierare
o chattare. La forma inglese può anche portare con sé anche parte del mondo in
cui è nata e si è diffusa, un certo numero di connotazioni legate all’inglese,
o una capacità di sintesi maggiore di quella dell’italiano, caricando la parola
o l’espressione inglese di una forza evocativa che la controparte in italiano
non avrebbe (pensiamo per esempio a ok boomer, me too o ghostare). Inoltre,
anche se non si caricano di nuovi significati, non è detto che le forme inglesi
cancellino dalla lingua quelle italiane: succede che le due forme convivano,
senza che una scacci l’altra dal lessico, come succede con weekend e
finesettimana, con volley e pallavolo, smartphone e telefonino, web e rete ecc…”.
Tra coerenza e incoerenza sull’uso degli anglicismi
Weekend o finesettimana, smartphone o telefonino. Secondo Baranzini “è fondamentale riflettere sulla percezione parzialmente falsata che il parlante inevitabilmente ha della presenza di forestierismi nella lingua: tendiamo infatti ad utilizzare senza alcuna esitazione quei termini che fanno parte dell’italiano da molto tempo e che abbiamo sempre sentito (pensiamo per esempio a film, bar, sport, hobby, computer, ecc.) mentre storciamo il naso di fronte alle forme più nuove, che ci sorprendono, ci colpiscono, e quindi ci danno più fastidio. Ma la prospettiva storica dovrebbe aiutarci a capire che le parole di altre lingue entrano regolarmente nella nostra senza necessariamente snaturarla e metterla in pericolo, e che nell’arco di pochi anni la sensazione di estraneità scompare. Al momento, poi, non abbiamo ancora la capacità di distinguere i termini che entreranno stabilmente a far parte del lessico dell’italiano da quelli che rispondono a mode passeggere. La lingua verosimilmente selezionerà solo una parte delle innovazioni, dimenticando le altre”.
Un fenomeno che si ripete
Il lessico, continua la nostra interlocutrice, “è poi un livello linguistico particolarmente aperto e permeabile, ma anche – in un certo senso – superficiale, e non intacca in profondità il sistema linguistico, che rimane, nella maggior parte dei casi, saldamente italiano: ne sono una prova i sistematici adattamenti morfologici dei termini inglesi al di fuori della categoria dei nomi. Entrati nell’italiano come prestiti non adattati e quindi nella maggior parte dei casi come nomi invariabili, diventano a loro volta basi produttive di nuove parole derivate secondo i meccanismi della lingua italiana. Si creano quindi verbi come cringiare, triggerare, scannerizzare o spoilerare da cringe, trigger, scanner o spoiler, ignorando, di fatto, il livello morfologico dell’inglese. Allo stesso tempo si nota anche, negli ultimi anni, la maggiore tendenza ad accogliere anche intere espressioni o frasi in inglese, come prove me wrong o point of view/POV (ma in altri periodi storici questo stesso fenomeno è stato osservato per altre lingue culturalmente dominanti, in particolare il francese: 'c’est la vie', 'tout se tient', 'cherchez la femme', ecc.)”.
Ma se guardiamo i dati, che cosa vediamo? “In Svizzera, dove
noi italofoni siamo particolarmente avvezzi al contatto linguistico, e dove
usiamo termini presi in prestito dal francese e dal tedesco o espressioni e
strutture modellate sulle due altre grandi lingue nazionali, gli anglicismi
nell’italiano sono davvero pochi: lo studio di Pandolfi 2009 mostra che gli
anglicismi in un corpus di italiano parlato della Svizzera italiana
rappresentano lo 0,27% rispetto al totale di parole considerate, e per la maggior
parte si tratta dei già citati anglicismi “di lunga data” come okay o hobby.
Un ulteriore elemento che contribuisce a una sovrastima degli anglicismi è che
sono particolarmente presenti in ambiti ad alta visibilità come il linguaggio
giornalistico (anche il nome di questa testata ne contiene uno…) o quello dei
social media. Si tratta di varietà specifiche, che non riflettono l’uso
spontaneo dei parlanti in tutti gli altri ambiti della produzione linguistica”.
Parole che tornano
Gli anglicismi, insomma, fanno ormai parte della nostra lingua, ma c’è anche una curiosità. “I diversi studi sul lessico dell’inglese mostrano che più della metà delle parole inglesi hanno origini francesi o latine. Insomma, gli anglicismi potrebbero essere visti come parole che tornano, un po’ cambiate dopo un lungo viaggio”, aggiunge Baranzini.
Tra rischi e vantaggi delle influenze del mondo “online”
La domanda può sorgere spontanea: con una lingua che continua ad arricchirsi di termini e con tutte le influenze date dal linguaggio usato “in rete” quali sono i rischi e quali i vantaggi? “La linguistica è poco abituata a ragionare in termini di rischi e svantaggi, e si limita ad osservare e analizzare i fenomeni. L’influenza anche linguistica del mondo online (un altro anglicismo…) non ci stupisce: hanno avuto questo ruolo la televisione, la pubblicità, le riviste, la politica, a seconda dei periodi storici. Se, come il linguista Michele Cortelazzo ha messo in luce, la globalizzazione anche linguistica creata da internet negli ultimi anni ha in parte frenato la forza creativa e la variabilità interna del linguaggio giovanile, questo va messo in relazione con la spinta globalizzante più ampia del mondo, guidata dal modello anglofono”.
“Abbiamo a disposizione nuove varietà di italiano”
Il vantaggio dell’influenza del linguaggio usato soprattutto sui social, ma non solo, “anche se può sembrare controintuitivo, è che abbiamo a disposizione nuove varietà di italiano, da usare e da studiare. Chi padroneggia il linguaggio dei social media, la comunicazione scritta ma dialogica e immediata delle chat, le modalità di costruzione multimodale del discorso che intreccia immagini statiche o dinamiche, testo, emoticon ecc. ha imparato a gestire nuovi strumenti linguistici, che presentano caratteristiche nuove e rispondono a logiche sostanzialmente diverse sia dallo scritto programmato che dal parlato. Non è diverso solo il lessico, o il ricorso all’inglese, ma lo sono anche la punteggiatura, la costruzione del testo, la sintassi, la gestione dei turni di parola…”
Come approcciarsi al linguaggio dei più giovani
Per alcune persone, soprattutto quelle meno avvezze al mondo dei social, può essere difficile approcciarsi ai giovani e comprendere quelle dicono. Il pensiero va in particolare ai genitori, ai docenti e a tutte quelle figure che hanno un contatto costante con i più giovani. “Una delle funzioni del linguaggio giovanile è proprio quella che ha a che fare con la costruzione dell’identità: dell’identità in quanto membri di un gruppo di pari e in quanto diversi dai membri degli altri gruppi di età. Quindi disporre di una zona di difficile comprensione da parte degli esterni al gruppo fa parte del gioco. Ma il linguaggio non è costruito a tavolino per risultare poco comprensibile: riflette anche un mondo diverso, abitudini diverse e riferimenti culturali diversi”.
Imparare il loro linguaggio? “Un’operazione faticosa”
In fondo, quindi, “basterebbe osservare attentamente quel mondo, frequentarlo, decifrarne le dinamiche e i valori per capire meglio anche il loro linguaggio”. Ma la verità, continua l’esperta, “è che difficilmente ci interessa, e questa operazione è faticosa: nella maggior parte dei casi ci arrendiamo alla difficoltà di comprendere o, se siamo fortunati, possiamo ricorrere alla ‘traduzione’ di un ‘parlante nativo’. Chiedere ai giovani di riflettere sulle caratteristiche del loro linguaggio può aiutare gli adulti curiosi a capirne meglio il funzionamento e invita alla riflessione metalinguistica i giovani stessi, dando dignità e valore di oggetto di studio a una varietà linguistica spesso criticata dai parlanti adulti ma in realtà accuratamente studiata da molti linguisti nelle sue caratteristiche peculiari e nelle sue capacità creative e innovative. Ma anche questa visione è ingenerosa nei confronti dei giovani, che sono in grado, come la maggior parte dei parlanti, di selezionare la varietà di italiano usata a seconda della situazione comunicativa e dell’interlocutore (o di imparare progressivamente a farlo, anche grazie alla scuola). Questo significa che la visione di un linguaggio giovanile totalizzante è riduttiva, e non tiene conto della sua natura di varietà tipicamente informale e riservata all’interazione fra pari. La novità e la forza pervasiva del mondo di internet hanno paradossalmente diminuito il divario fra le varietà legate all’età, creando nuove varietà di lingua più trasversali legate al mezzo, pur rimanendo chiare alcune correlazioni fra tipi di spazi virtuali e fasce di età degli utenti”.
Quale sarà l’italiano del futuro?
“Preferisco non ipotizzare futuri scenari linguistici, non ne ho gli strumenti”, risponde Baranzini. “Posso certamente dire che l’italiano del futuro sarà diverso da quello attuale. O per lo meno dovremmo augurarcelo, se teniamo alla sua salute: se smette di cambiare, significa che non è davvero usato dai parlanti anche nei contesti comunicativi spontanei. È utile abituarsi a rovesciare la prospettiva con cui osserviamo i fenomeni linguistici, leggendo le innovazioni linguistiche non come segnali di attacco esterni che indeboliscono la lingua ma, al contrario, come indizi di vitalità e di fermento”.
L’inizio e la fine del linguaggio generazionale
“Sciallo”, “paglia”, “panozzo”, “bella” (per salutare), “T.v.b”, “Lol”. Queste sono alcune delle parole che hanno caratterizzato il linguaggio di alcune generazioni passate e che non si usano quasi più. Abitudini che mostrano come il linguaggio generazionale abbia un inizio e una fine. “Se, come abbiamo detto, il linguaggio giovanile si pone in aperta opposizione con il linguaggio della generazione precedente, è normale che una parte consistente del suo lessico sia destinato a non durare o a pagare il proprio successo presso i parlanti esterni al gruppo dei giovani entrando nella lingua comune e perdendo la funzione caratterizzante nel gruppo giovanile. Nella società odierna, dominata dai ritmi velocissimi dei social media, sembra poi che queste fasi fisiologiche si vadano accorciando, rendendo obsoleti termini di enorme diffusione anche nell’arco di pochi mesi. Esiste però anche un insieme di elementi del linguaggio giovanile che vanno a formare il cosiddetto “strato gergale tradizionale”, e che si presentano trasversalmente attraverso le generazioni (cioè, tipo, mega, troppo, ecc.). Sono meno numerosi e meno caratterizzanti rispetto ai precedenti, ma formano una sorta di zoccolo duro del linguaggio giovanile”.
“Bisogna dare il buon esempio”
Vista l’abitudine delle nuove generazioni a usare un linguaggio sempre più farcito di anglicismi o di parole adattate all’italiano, come si può attirare la loro attenzione, soprattutto per quanto riguarda la letteratura, lo studio, la cultura e l’informazione? “Come già detto, imparare a destreggiarsi all’interno di un’ampia gamma di varietà di lingua fa parte della competenza linguistica, che è auspicabile migliorare e affinare indipendentemente dalla propria età o dalla propria professione. Se l’influsso dell’inglese è difficilmente arginabile, perché risponde a dinamiche, non solo linguistiche, estremamente potenti, quello che possono fare gli adulti (come sempre) è dare il buon esempio. L’impressione che si ha è infatti che a pesare di più nell’italiano contemporaneo sia l’altissima frequenza di anglicismi di cui sono infarciti gli articoli di giornale, il linguaggio televisivo, il linguaggio accademico e quello aziendale, fino a quello amministrativo e istituzionale. Non tanto un fenomeno spontaneo legato a una modalità di comunicazione specifica e in parte legata alla fascia d’età come quella del mondo online, ma un’abitudine, da parte di professionisti adulti, a programmare con minore attenzione alla lingua la redazione di altri tipi di testo, pubblici e più formali. In questo tipo di ambito l’italiano della Svizzera sembra poi presentarsi come esempio virtuoso rispetto all’Italia, dove la tendenza sembra più pervasiva e artificiosa. È stato messo in luce come nel linguaggio istituzionale svizzero ci sia un’attenzione particolare per questo aspetto, portando a una presenza di anglicismi minore rispetto all’Italia; la stessa osservazione è stata fatta per il linguaggio giornalistico”