Nel 2000, a quindici anni, Nina Buffi ha dovuto affrontare la scomparsa del padre, il politico ticinese Giuseppe Buffi, trovandosi a constatare sulla propria pelle quanto sia difficile, nella nostra società, parlare di lutto e ferite psicologiche. Buffi ha quindi voluto ripercorrere quegli eventi nel libro “Vòltati – Quasi un romanzo”, intrecciando varie forme narrative: l’autobiografia, la sceneggiatura cinematografica e il racconto, scendendo a patti con un trauma che ha segnato tutta la sua vita. Nella puntata di “Non è sempre Natale” del 27 dicembre ce ne ha parlato attraverso un viaggio fatto anche di immagini.
L'intervista
L’immagine che fa da copertina a questo “quasi romanzo” è
molto bella e significativa: una foto che racconta più di mille parole.
Potresti parlarcene?
“È una foto che scattò mia madre tantissimi anni fa sulla
spiaggia dell’Isola Verde, un luogo poco distante da Chioggia. Siamo io e mio
papà che camminiamo sul bagnasciuga e chissà di cosa stavamo parlando. È uno
scatto malinconico, anche perché penso fosse novembre, in cui siamo di spalle e
suggerisce un po’ quello di cui si parla nel libro, ovvero l’importanza di
voltarsi e guardare in faccia le cose difficili da affrontare per poi superarle”.
Come sei arrivata all’idea di mettere nero su bianco dei
momenti anche dolorosi?
“Scrivere è un’ottima terapia, aiuta a metabolizzare quello
che succede. Inoltre, conversando con diverse persone mi sono resa conto che si
parla poco dei traumi psicologici, attorno ai quali c’è ancora uno stigma, così
come per la salute mentale. Mi sono quindi detta che attraverso la mia storia posso
mandare il messaggio che quando ci succede qualcosa di brutto dobbiamo prenderci
cura della nostra salute mentale, senza ignorare quello che ci succede e cercare
aiuto. Con la mia storia volevo quindi far passare questo messaggio e da lì è
scattata l’idea che quello che scrivo deve andare oltre la mia storia”.
Nel libro è presente la frase “ho imparato a mie spere
che nella nostra società le ferite psicologiche vengono ancora ignorate e stigmatizzate”.
In un’intervista hai fatto il paragone tra il quando ti succede un incidente
stradale e vieni soccorso con l’ambulanza, e quando invece succede qualcosa
nell’anima, dove non c’è nessuna ambulanza che viene a soccorrerti.
“Io l’ho vissuto sulla mia pelle. C’è stato l’incidente d’auto,
sono arrivate le ambulanze e ci hanno portati in ospedale dove siamo stati
curati molto bene da un punto di vista fisico. Ma l’aspetto emotivo e
psicologico vengono ancora oggi spesso ignorati, non c’è un supporto per queste
situazioni. E come detto c’è ancora questo stigma, nel quale la gente considera
normale una visita medica, ma prova disagio se qualcuno si reca dallo
psichiatra”.
Un’altra frase presente nel tuo scritto parla un po’ del nostro
Cantone e dice “il mi mondo di ragazzina iniziava e finiva in Ticino e lì tutti
sapevano chi era mio padre”. Ma chi era per te tuo padre?
“Era prima di tutto un papà. Ma c’era anche l’aspetto che
era anche una persona conosciuta, quindi c’erano spesso situazioni ed eventi
sociali in cui mi veniva ricordata la sua figura pubblica. Anche quando
andavamo al ristorante c’erano persone che andavano da lui per complimentarsi
in merito a interviste rilasciate ai media. Quindi mi si ricordava abbastanza
spesso che il suo ruolo andava oltre a quello di papà. Ma non l’ho vissuta così
male, anche se ammetto che mi piaceva molto andare via in vacanza perché lì nessuno
sapeva chi era e potevo averlo tutto per me”.