Dalla “resilienza” alla “resistenza”: dopo gli sforzi e gli esempi di solidarietà del primo lockdown, con le scritte colorate dai banconi di casa e gli applausi al personale ospedaliero, si è passati alle proteste, anche violente, in piazza. Proteste che ormai stanno iniziando a diffondersi anche in Svizzera. Evidentemente anche un segno di stanchezza della popolazione, ma cosa è cambiato tra lo spirito di quei primi mesi e l’insofferenza della seconda ondata? Teleticino ne ha parlato con la psicologa Elena Scaffidi.
Che cosa ci è successo? Siamo passati dalla resilienza e dal disegnare gli arcobaleni alle proteste di piazza.
“Se la resilienza è un termine molto discusso e difficile da definire (i neuroscienziati pensavano più ad aspetti comportamentisti), oggi è chiaro che la capacità di mettere in atto la nostra forza resiliente dipende dal supporto sociale. Ed è quello che abbiamo dimostrato nella fase del lockdown di marzo aprile dove ci si affacciava dalle finestre e si cercava il conforto di quei gruppi sociali che sappiamo essere importanti per poter continuare a vivere in questo mondo. A marzo siamo stati colpiti, nel giro di pochi giorni, da un meteorite che si è abbattuto sul pianeta, qualcosa di sconosciuto che ci ha fortemente stressato e spaventato. Siamo stati però in grado di attingere con coraggio, chi più chi meno, alle nostre risorse, nella consapevolezza che così facendo avremmo sortito dei risultati. Il concetto è un po’ che l’essere umano è in grado di sottoporsi a sforzi immani o sacrifici immensi, questo però se c’è un razionale che lo guida. Dopo il periodo estivo in cui tutti ci siamo sentiti più rassicurati malgrado le raccomandazioni degli esperti, nessuno si sarebbe mai immaginato un ritorno così importante. A questo punto non stiamo più parlando di resilienza, stiamo parlando di sofferenza prolungata che a livello emotivo sta dando dei frutti che hanno una connotazione differente rispetto a qualche mese fa”.
Il problema è che questo “secondo meteorite” che ci ha colpiti dovrebbe accompagnarci fino almeno a primavera. Un periodo praticamente triplicato rispetto alla prima ondata. Come potremmo uscirne a livello mentale?
“La mia prima osservazione, sia nei miei pazienti che nei gruppi che incontro, è proprio questo sentimento di incertezza. Se in un primo momento siamo riusciti a far fronte a una difficoltà chiamando a noi delle risorse in vista di un obiettivo, oggi questo obiettivo si sta facendo sempre più sfumato, così come queste certezze che a marzo ritenevamo avremmo avuto almeno a Natale. E non parlo per forza del vaccino ma quantomeno di contorni un po’ più chiari rispetto a questa situazione che ormai viene descritta in maniera diversa da più fonti: penso che sia quella la grande difficoltà. Quindi c’è da un lato una ricerca di informazioni, mentre dall’altro vedo che in molte persone la stanchezza nasce rispetto all’incapacità di discernere informazioni differenti e di valutare comportamenti che non sempre sembrerebbero essere congruenti. Ad esempio mi riferisco al fatto che anche alcuni miei pazienti, infettati dal virus, a pochi giorni dalla fine dei sintomi hanno potuto tranquillamente riprendere la loro attività. Questo perché evidentemente le misure di sicurezza, volte al contenimento della trasmissione attraverso il distanziamento e la mascherina, mettono gli esperti in condizione di pensare che questo sia fattibile. Non sono convinta che la gente l’abbia capito. Questo perché fa un confronto tra i 10 giorni di quarantena che una persona fa quando sa di essere entrata in contatto con qualcuno che magari hanno frequentato ambienti non sicuri, con situazioni dove c’è una malattia conclamata con sintomi di un certo tipo e che vengono trattate allo stesso modo. Credo che ci sia la necessità da parte dei media di chiarire alcuni aspetti che sembrerebbero scontati ma che io ho la sensazione che la gente comune non abbia compreso fino in fondo”
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