
Nella seconda giornata di processo per il pestaggio di Cadempino la parola è passata alla difesa. Alla sbarra, lo ricordiamo, sei giovani tra 21 e 32 anni, accusati di una lunga lista di reati nei confronti di un 18enne del Mendrisiotto che in tre occasioni, tra il 2020 e il 2021, venne picchiato selvaggiamente e torturato. Il quadro emerso ieri in aula era quello di un branco sadico che praticava delle spedizioni punitive e di una crudeltà inenarrabile. Oggi la difesa ha tentato di dare una spiegazione alla brutalità di queste azioni.
Un contesto di disagio giovanile
I legali degli imputati hanno spiegato che i fatti si sono svolti in un contesto di disagio giovanile e che la maggior parte dei ragazzi proviene da famiglie fragili. Non avendo delle figure di riferimento, gli imputati sono cresciuti ispirandosi a film, social e videogiochi. Molti di loro avevano delle vite sregolate, fatte di abuso di alcol e droga. Un disagio poi esasperato dalla pandemia. Questo per capire in che contesto è nato un massacro simile per un movente banale come un debito di poche migliaia di franchi.
L’intenzione non era di uccidere
I giovani hanno sostanzialmente ammesso i fatti, ma la difesa oggi ha insistito su un elemento chiave in sede processuale per far cadere l’accusa più grave, quella di tentato omicidio intenzionale. L’attenzione si è soffermata a lungo soprattutto sui colpi inferti alla testa. La perizia del medico legale ha stabilito che, nel pestaggio di Cadempino, la vittima è stata colpita alla testa presumibilmente con una spranga. Ma la difesa ha insistito sul fatto che “i colpi inferti non hanno mai determinato un reale e imminente pericolo per la vita del 18enne”, si legge nella perizia. Per i legali della difesa l’intento degli imputati era dunque quello di spaventare, intimorire, ma non uccidere: altrimenti non avrebbero mai raggiunto l’obiettivo di ottenere il denaro. Di qui la richiesta di una massiccia riduzione della pena da parte della difesa per tutti e 6 i giovani alla sbarra. Infine i legali degli imputati - di cittadinanza rumena, italiana e colombiana - hanno chiesto alla Corte, presieduta dal giudice Amos Pagnamenta, di rinunciare all’espulsione dalla Svizzera dei loro assistiti. La sentenza è attesa per giovedì pomeriggio.
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