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Siamo tutti un po’ cypherpunk?
Redazione
2 anni fa
Per molti è ormai abitudine scambiarsi documenti tramite WhatsApp, inserire i propri dati personali in un sito web per registrarsi ad un servizio online, o ancora archiviare le proprie foto online nel cosiddetto “cloud”. Spesso diamo per scontato che i nostri dati personali siano al sicuro. Un tema attuale messo in evidenza dal mondo dei cypherpunk.

Forse non è chiaro il termine cypherpunk, ma potremmo aver già sentito parlare di cyberpunk. L’espressione fu coniata da Bruce Bethke, che nel 1983 pubblicò un racconto intitolato, appunto, “Cyberpunk”. I protagonisti di questo tipo di narrazione sono spesso degli individui con un atteggiamento ribelle e critico verso la società, vestiti in stile punk caratterizzato da acconciature particolari ed estensioni robotiche del proprio corpo al limite degli umanoidi, ovvero uomini con componenti meccaniche e computerizzate. Il cyberpunk è un genere più che mai attuale, tanto da venire riproposto da Netflix e la sua serie animata “Cyberpunk: Edgerunners”.

Eppure cyberpunk non si riferisce soltanto ad una concezione fantascientifica di serie TV o videogiochi. Il cyberpunk infatti si sviluppò inizialmente come genere letterario incorporando in sé la critica dello sviluppo senza limiti della tecnologia e del suo uso oppressivo da parte di governi futuristici. A partire dagli anni ‘80, William Gibson e Michael Sterling, tra i più noti autori di cyberpunk, scrissero più di una ventina di storie su questo tema. È lo stesso Sterling a descrivere in “Mirrorshades” i temi centrali del cyberpunk relativi alla realtà della società post-industriale: realtà virtuale, biotecnologia, cibernetica, circuiti elettronici impiantati nei personaggi. Le nuove tecnologie vengono utilizzate quindi come mezzo per esprimersi - da qui la parola cyber - contro una società opprimente e consumistica - da cui l’atteggiamento punk.

Da una visione non troppo distante dagli ideali sopra descritti, si ispirano i cypherpunk negli anni ‘90. Seppur simili nel nome, i cypherpunk non sono parte di una sfera letteraria fantascientifica, bensì teorizzano e sviluppano soluzioni ancorate ai problemi della società attuale. Inoltre, i cypher non hanno un’estetica comune, come invece accade nel mondo cyberpunk con uomini-macchina in stile punk. I cypherpunk sono individui dalle più svariate professioni. Tra essi possiamo identificare attivisti, hacker, ricercatori, informatici, imprenditori delle più avanzate tecnologie informatiche, ma anche politici impegnati nel voler tutelare la privacy degli utenti online attraverso l’uso della crittografia. Se il concetto di ribellione “punk” resta invariato, il cambiamento è descritto dalla parola “cypher”, che in italiano fa riferimento al verbo cifrare, ossia codificare.

Questo obiettivo è reso chiaro da Eric Hughes, matematico e figura chiave del movimento, che nel proprio Manifesto cypherpunk del 1993 scrive: “Quando chiedo al mio provider di posta elettronica di inviare e ricevere messaggi, il mio provider non ha bisogno di sapere con chi sto parlando o cosa sto dicendo o cosa gli altri mi stanno dicendo. [...] Quando la mia identità viene rivelata dal meccanismo sottostante la transazione, non ho più privacy.”  Tuttavia per Hughes privacy non è sinonimo di segretezza, la quale assume il significato di occultazione delle informazioni, bensì il potere dell’utente di scegliere in modo selettivo quando e a chi rivelare se stesso. Fu sempre Hughes a coniare l'espressione che li avrebbe definiti “cypherpunks write code”, ovvero “i cypherpunk scrivono codice". Dove il codice da scrivere in questione era un sistema per mantenere la segretezza e al contempo l’autonomia nel rivelare le informazioni a chi si vuole. Nel mondo cypherpunk, la codifica è quindi il sistema con cui proteggere la propria privacy dagli attori come i provider che fungono da intermediari online.

In questo contesto vediamo un legame con i movimenti del free software emersi all'inizio degli anni Novanta. Come messo in evidenza dai prof. Gabriele Balbi di USI e prof. Paolo Magaudda nel loro libro “Media digitali. La storia, i contesti sociali, le narrazioni” proprio negli anni Novanta divenne effettivamente disponibile un sistema operativo, che venne chiamato Linux, libero e costantemente migliorabile dagli utenti. Come riportato nel libro di Balbi e Magaudda, sebbene la diffusione di Linux nei personal computer non abbia mai raggiunto percentuali significative di mercato “Linux nel corso degli anni ha assunto un rilevante ruolo simbolico, in grado di rendere più visibile il movimento dell’open software e collegare il computer e l’uso della rete a questioni più direttamente politiche, ponendo le basi per l’affermazione di una più ampia sensibilità nei confronti di una cultura open in differenti campi della società”.

Un esempio di tutela della privacy degli utenti online attraverso l’uso della crittografia nella quotidianità è quello delle applicazioni di messaggistica. Gli utenti di WhatsApp hanno magari già visto la dicitura “crittografia end-to-end” che appare sullo schermo del proprio dispositivo accompagnata dall’icona di un lucchetto all’avvio di una nuova conversazione. È infatti dal 2016 che WhatsApp utilizza questa soluzione per tutelare le conversazioni degli utenti sulla piattaforma. Dal momento che aggiungiamo un nuovo contatto, l’applicazione crea una coppia di chiavi tra i due utenti. Queste chiavi sono private e rimangono all’interno solo dei due dispositivi. Anche se i nostri messaggi passano dal server del proprietario di WhatsApp, l'azienda - cioè Meta, di cui fa parte anche Facebook - non dovrebbe essere in grado di decodificare i nostri messaggi.

L’obiettivo di queste soluzioni crittografiche è quello di garantire una connessione criptata, ovvero di assicurare che le informazioni, come anche password o numeri di carte di credito, rimangano private nel mondo digitale. Questi sistemi proteggono la privacy degli utenti durante l’interazione con applicazioni o piattaforme che si basano sull’utilizzo di Internet per il proprio funzionamento. Tuttavia, va considerato che alcune piattaforme permettono l’accesso ai contenuti per indagini di polizia, una sorta di accesso ai nostri messaggi da una “porta secondaria” detta “backdoor”. Non è il caso ad esempio del servizio di Telegram, simile a WhatsApp ma che non permette alcuna soluzione di accesso “backdoor” supportando in pieno il concetto di scambio di comunicazioni criptate.

Il mondo cypherpunk trova come motore per il suo sviluppo non solo i temi della decentralizzazione ma considera pertanto la crittografia come aspetto centrale per un web libero.

Sono passati ben 30 anni dalle prime riflessioni cypherpunk, che sono rimaste in secondo piano rispetto all’esplosione e propagazione del mondo di Internet. Tuttavia si tratta di riflessioni lungimiranti che risultano oggi quanto mai attuali e legate alla percezione contemporanea di problemi come la privacy o la sicurezza. D’altronde quando oggi mettiamo in dubbio la segretezza dei nostri dati personali mentre ci iscriviamo su un sito web, oppure quando inviamo documenti utilizzando una chat, possiamo dire che siamo un po’ cypherpunk anche noi.

Articolo di: Maria Luisa Giannetta e Mjriam Prudente